Massimo Ferlini: «Dal caso Fiat un richiamo alla responsabilità, anche per la politica debole»
Intervista al vice Presidente della Compagnia delle Opere: «La precarietà nel lavoro è una categoria della politica e non una categoria economica»
Intervista di Luigi Degan e G. Sabella pubblicata sul sito del settimanale Tempi il 28 gennaio 2011.
Mentre nelle piazze italiane si consuma la protesta della Fiom, torna d’attualità il caso Fiat. Massimo Ferlini, Vice Presidente della Compagnia delle Opere ed esperto di politiche del lavoro, commenta: «Auspichiamo una nuova Welfare Society per superare la debolezza istituzionale della politica economica e delle politiche industriali, anche attraverso la maggiore partecipazione delle associazioni dei lavoratori. La precarietà nel lavoro è una categoria della politica e non una categoria economica».
Dott. Ferlini, come ha interpretato l’esito positivo del referendum di Mirafiori? Si tratta di un comportamento responsabile dei lavoratori o di una loro rinuncia a qualcosa?
Io do questa lettura del risultato di Mirafiori, come del resto di quello di Pomigliano: c’è una presa d’atto da parte dei lavoratori della concretezza delle questioni. Si trattava di superare, come si diceva un tempo, lacci e lacciuoli che sono il portato delle sedimentazioni di questi anni di confusione nelle politiche industriali e nelle relazioni sindacali, si tratta di fare piazza pulita per tornare ad una chiarezza del rapporto di scambio fra contributo alla produttività che il lavoro da e i ritorni in termini di sicurezza del posto in primo luogo (quindi la difesa del posto di lavoro) e poi degli incrementi e dei riconoscimenti che dovranno essere dati al lavoro, degli incrementi salariali attesi. Si salda la terza gamba della riflessione attuale: le forme di partecipazione, quindi di coscienza con cui il lavoro segue l’impresa, il suo sviluppo e la sua dinamica. Quindi si dovrà elevare lo scambio, i riconoscimenti di produttività, in termini anche di conoscenza delle scelte imprenditoriali e di sviluppo che l’azienda deve fare.
Quali sono queste nuove responsabilità per lavoratori e imprese?
Sono su due piani. La debolezza istituzionale della politica che dura da 20 anni (non stiamo parlando degli ultimi 6 mesi…) ha fatto si che la concertazione fra le parti e quindi le decisioni di politica economica venissero a tavoli triangolari in cui si suppliva alla debolezza istituzionale della politica economica e delle politiche industriali. E’ evidente invece che oggi questo sistema di relazioni che ingabbiava poi le decisioni a livello di trattative aziendali è saltato, è stato fatto saltare. Questo può essere un merito o meno, non tocca a Marchionne indicare ora le soluzioni ma di sicuro le scelte che oggi dovevano essere fatte sono invece, per alcune grandi imprese, scelte aziendali pure e, quindi, di contratto aziendale di impresa. La vecchia logica per cui il contratto nazionale non era la base di partenza per i contratti aziendali, ma che era la gabbia dentro a cui venivano fatte le scelte di politica economica, di politica industriale e, quindi, anche le compatibilità delle decisioni locali e territoriali ed aziendali che venivano prese è saltata. Questo rimette in moto tutto. Rimette in moto una richiesta di responsabilità in primo luogo istituzionale, cioè la richiesta di ridisegnare i tavoli dove invece ognuno rappresenta i propri interessi e, quindi, chi rappresenta gli interessi generali del paese (ovvero una domanda di enorme responsabilità alla politica che ne deriva). Dall’altra una responsabilità nuova, specie sul piano aziendale e territoriale, della contrattazione tra scelte di sviluppo industriale dentro ad uno sviluppo di riconoscimento di premi di produttività che devono essere dati al lavoro.
In questo quadro di responsabilità, qual è il ruolo dei corpi intermedi?
Su questo parto invece dal dato di chi ha votato no al referendum. Così come c’è una grande responsabilità di chi ha votato si, e di un’assunzione di responsabilità di scambio e di scelte a cui partecipare, io riconosco nel no una cosa: siccome i lavoratori sono in carne ed ossa, sia che votino si che votino no, vale anche la dignità del lavoro. E credo che lì, al di là delle posizioni retrive o arretrate di alcune forze sindacali, ci sia stata una richiesta di un nuovo riconoscimento, di nuove forme con cui il lavoro deve essere rappresentato, che si è espresso anche nel no, di fronte a quella che in qualche modo si è presentata come un diktat, o come una domanda senza possibilità di reazione. Uno non poteva che dire si alla difesa del posto di lavoro e dell’insediamento industriale. Questo no richiede un’attenzione per dare una nuova rappresentanza e dignità ai lavoratori, nuove forme di rappresentanza. Forme nuove che passano attraverso quelli che sono i corpi intermedi che dovranno farsi carico di grandi innovazioni. Queste innovazioni non sono solo relative alla contrattazione salariale, ma anche a quella seconda gamba che è fatta di mutualità o risparmio per la pensione, e anche forme di tutela per i periodi di disoccupazione o di mobilità volontaria o involontaria del lavoro, da un’occupazione ad un’altra, e che credo debbano trovare forme nuove di welfare partecipato. O si passa ad una Welfare Society, come diciamo, e che vede anche nella partecipazione delle associazioni dei lavoratori questa possibilità, oppure credo permanga una debolezza del sistema che rimarrebbe zoppo, che non risponderebbe a tutte le questioni legate alla dignità del lavoro e delle persone che invece vengono fuori dalle decisioni di questo periodo.
Parlando di Welfare Society, la responsabilità nel lavoro è un valore che va condiviso, da lavoratori, imprese e Istituzioni.
Rispetto al «calo del desiderio» di cui parla il rapporto Censis, è chiaro che si è più inclini al desiderio in un contesto responsabilizzante che in uno che deresponsabilizza, come lo è stato ad oggi l’ormai lontano Welfare State. Le chiedo: identificare nella precarietà la causa del calo del desiderio – come qualcuno fa – non rappresenta un altro rischio di deresponsabilizzazione?
Io credo che la precarietà sia una categoria della politica e non una categoria economica. Lo dico perché la certezza non è mai esistita, non è che le forme contrattuali hanno tutelato le altre generazioni o altri periodi storici. Qual è sempre stata la vera tutela? La certezza che l’investimento di ciascuno di noi portava ad una nuova fase di sviluppo, di crescita. E quindi all’impegno, poi al riconoscimento che il contributo di tutti era stato dato allo sviluppo della società. Oggi ho l’impressione che invece ci sia una difficoltà a vedere questa speranza, cioè a partire da certezze che l’impegno di tutti dia un contributo allo sviluppo o dia invece un contributo al saccheggio delle risorse che tutti contribuiamo a creare, da parte di lobby e di forze della finanzializzazione della società, dal fatto che perdurano invece interessi corporativi, e così via, e che questo porti ad uno spreco di risorse. E che quindi non vi sia un riconoscimento dell’impegno individuale. Non è la forma contrattuale che sostiene il desiderio e la tutela. Oggi la durata media di un’impresa alla Camera di Commercio di Milano è di 10 anni, e non esiste un contratto quindi a tempo indeterminato che risponde a questa flessibilità che è entrata nel sistema economico. Ma il sistema economico riconosce questo passaggio se riconosce a tutti il contributo che ciascuno di noi da alla crescita della società. Il fatto che invece questa crescita o questa mobilità sociale veda prevalere spinte corporative e quindi un danno che viene fatto da tutti – sia giovani che anziani – porta ad uno spegnimento del desiderio. Solo ridando certezza al riconoscimento del contributo che tutti danno, può partire un recupero, una spinta del desiderio. Oltre al fatto di avere una coscienza antropologica e del contributo dell’uomo che solo qualche cosa d’Altro, il riconoscere che c’è qualche cosa d’Altro che ti sostiene, ha dato a tutte le generazioni precedenti e che può darlo anche a quelle contemporanee.